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IL FRANTOIO DI UN TEMPO ATTRAVERSO LE SUGGESTIVE IMMAGINI A COLORI

Proprio così, voglio proporre, questa volta, di guardare un vecchio e ora non più funzionante FRANTOIO durante l’antichissima pratica della MOLITURA delle olive da olio, attraverso le suggestive immagini d’archivio.

Le immagini impresse in 23 DIAPOSITIVE a colori sono state effettuate dallo scrivente in compagnia di mio padre Michele, perché ne rimanesse la MEMORIA, il giorno della VERGINE IMMACOLATA, l’8 dicembre 1979, presso il FRANTOIO, ubicato in contrada PADULA, del Sig. PIETRO DELL’ORCO, al quale vanno i miei ringraziamenti, amico di mio padre.

Siamo esattamente a 40 anni di distanza dal tempo che inesorabilmente fugge.

I luoghi, i gesti degli operai, gli attrezzi, le fasi scandite con un incedere giudizioso ci riportano nel passato. Per chi ha sensibilità ed amore per tutto questo, sicuramente, senza ombre di dubbio si lascia andare ad una miriade di ricordi indelebili soprattutto se negli anni ha costantemente seguito da bambino, come nel mio caso, fino ai nostri giorni la MOLITURA e i LUOGHI preposti ad essa.

Ho sempre seguito mio padre Michele, che essendo Vigile Urbano, conosceva bene il vasto territorio con le numerose emergenze aziendali e agro-pastorali, nonché i vari FRANTOI e i loro proprietari. Ogni anno anche noi subito dopo la raccolta delle Olive, ricordo con sprizzante entusiasmo aspettavo il giorno, anzi la notte, in cui si andava con mio padre a presenziare la MOLTITURA nel FRANTOIO. Ero bambino, quando negli anni ’50 sulla Gilera 125 di mio padre, da lui guidata, coperti fino ai denti, ci recavamo quasi sempre la sera per trovarci al frantoio in anticipo al nostro turno. Trascorrevamo la tarda serata e la notte ad assistere, vigilando, sulle varie fasi della MOLITURA.

Mia madre Lucia ci preparava in una borsa nera di cuoio, era sempre la stessa da sempre, il pane di montagna, già affettato da consumare sino alla fine dell’intera l’operazione. Era un rito che si perpetrava da sempre e in qualsiasi frantoio, come vedremo più avanti.

Tutti i frantoi erano molto rustici ed antichi. Ricordo uno dei più grandi ubicato quasi in città, posto ad angolo dopo VIA DALMAZIA. All’epoca non era evidenziato da una toponomastica ben precisa. Interessava un intero isolato, compreso oggi tra VIA /SICILIA, VIALE / FRATELLI ROSSELLI, VIALE / GIUSEPPE DI VITTORIO e VICO / SALENTO. Lo stabile era di proprietà della Famiglia GIULIANO, fittato ad un noto commerciante di prodotti agricoli di Andria. Ricordo come lo chiamavano “u marasciall(e)”. Costruzione andata demolita per far posto al Palazzo condominiale Giuliano. In questo Frantoio e per parecchi anni abbiamo molito parte delle nostre olive. Trattavasi di un frantoio monumentale, credo della seconda metà dell’Ottocento con decorazione in tufo a vista, proprio come era in uso in quel periodo. Una costruzione che all’epoca era ubicato alla periferia del Piano delle Fosse e che si affacciava verso l’ultima parte della Villa Comunale. Una costruzione in TUFO di Canosa a più campate, molto ampie, se non ricordo male con copertura a volte in muratura.

Quello che non mancava in qualsiasi frantoio, piccolo o grande che fosse, era il camino, grazie al quale nei rigidi inverni, già a novembre faceva molto freddo, ci si poteva riscaldare. Anche per me, che ero bambino di 6-7 anni, vi era sempre un piccolo angolo nonostante tante fossero le persone che lo attorniassero. La legna ardeva senza sosta, producendo una enorme quantità di brace e soprattutto calore. Gli anziani in attesa del loro turno di molitura delle olive, erano seduti vicino a questo enorme focolare.

Anche questa “calorosa attesa” mi affascinava, soprattutto per l’antico, semplice e gustoso rito che molto più avanti sarei stato io il protagonista, unitamente a mio padre.

Non mancavano i pozzi all’interno ed all’esterno del fabbricato per attingere l’acqua.

Mi affascinavano le strutture murarie, le volte in muratura o a capriate, gli antichi attrezzi di campagna appesi alle pareti bianche di calce o messi in angoli alla rinfusa. Attentamente osservavo e memorizzavo le varie fasi, a cominciare dalla prima, che dava inizio al processo di molitura, ovvero quella del trasporto delle olive, effettuato dagli operai stessi del frantoio. Le olive arrivavano al frantoio su carretti poste in sacchi di spago, ben legati. Venivano scaricati dagli operai del frantoio ponendoli in un punto assegnato lasciandoli accatastati, oppure svuotati in recinti mobili fatti di un filare di tufi, che stavano sia all’esterno che all’interno del frantoio stesso. I tufi delimitavano la proprietà del prodotto su cui veniva issato una canna che ostentava un pezzo di carta con il nome del proprietario. Mi rendeva particolarmente orgoglioso leggere su quel frammento di carta il cognome STUPPIELLO, alcune volte scritto non in modo ortodosso, sbagliando grossolanamente il cognome.

Era una sosta obbligatoria di circa 4-5 giorni perché le olive si “riscaldassero” per rilasciare più olio. Quello che mi destava interesse erano gli operai scaricatori e trasportatori dei pesanti sacchi pieni di olive. Avevano un sacco di spago posto a metà nell’intento di creare un cappuccio che mettevano sulla testa sino a coprire le spalle; durante le ore di lavoro, l’intreccio del sacco si impregnava di olio. Il loro lavoro era durissimo perché prelevavano il singolo sacco dal carretto, dove vi era il carrettiere che slegava la imboccatura del sacco passandolo sulla schiena piegata dell’operaio che con la forza delle mani faceva stringere le dita fortemente intorno ai bordi laterali del sacco. Con uno scatto vigoroso della schiena, l’operaio riusciva a sollevare il sacco pieno di olive fino a coprire completamente la parte posteriore del capo e la schiena. La funzione del sacco a cappuccio aveva la funzione di proteggere la testa. A passi sostenuti, gli operai, abbastanza robusti, arrivavano a destinazione nei vari recinti di tufo per scaricare i sacchi; oppure li lasciavano in piedi addossati l’un l’altro se non c’era più posto.

Anche le nostre olive, destinate alla molitura, erano già state trasportare nei giorni precedenti, dal carretto. Le olive dovevano stazionare sia nei sacchi che nei recinti per alcuni giorni. Quello dello scarico era una operazione molto faticosa per gli operai che effettuavano la spola tra i carretti e i luoghi dove venivano depositati.

Assistevo con gli occhi di un bambino, pieni di meraviglia, alle varie fasi della molitura. Gli operai, con le pale, riempivano le ceste, che venivano trasportate da altri sulla spalla, al disopra di una stola di sacco, ormai imbrattata di olio ed appesantita. La cesta veniva poi scaricata in una tramoggia che lasciava cadere, finalmente, le OLIVE nella macchina molitrice. Ed è qui che iniziava il tormento e l’esaltazione mentale per una pratica che si ripeteva da migliaia di anni. Arrivato il nostro turno, mi facevo avvicinare un alto sgabello per poter avvicinami e vedere le grosse macine, rotonde, spesse, pesantissime di granito, ruotare senza soluzione di continuità.

Le OLIVE venivano, con violenza, “oltraggiate” dalle pesantissime MACINE. Una violenza positiva a completo beneficio dell’uomo. Un DONO offerto dalla NATURA all’UOMO: i colori dell’esocarpo (buccia) della DRUPA globosa, ovoidale, che è il frutto della pianta dell’olivo, appartenente alla famiglia delle “OLEACEAE” al genere OLEA, il VERDE con tutte le sue sfumature e il bel violaceo delle olive mature. Il rumore assordante causato dal movimento delle ruote coprivano le voci e i forti richiami e messaggi verbali di intesa, emessi dagli operai tra di loro. Le pale a forma di orecchie degli aratri si muovevano senza sosta, raccoglievano le olive appena arrivate sul fondo piano della macina e le rivoltavano facendole arrivare fin sotto le ruote per essere schiacciate e frantumate e ridotte in poltiglia.

Nella disciplina che studia le rocce, la litologia, il VERDE OLIVA deriva dal nome di un componente essenziale delle rocce magmatiche, essendo una miscela isomorfa di alcuni minerali, parliamo della OLIVINA.

Sia l’esocarpo che il mesocarpo (la polpa), ricco di vacuoli contenenti soprattutto le belle e preziose goccioline di olio ed anche l’endocarpo (nocciolo) duro, ovoidale rugoso, vengono moliti e ridotti in una poltiglia brunastra. Alla fine questa “amalgama” viene ritmicamente ed in modo rotatorio circolare, azionato da una macchina, spalmata su dei “fiscoli”, all’epoca realizzati artigianalmente di corda dai funai, oggi di materiale sintetico, poggianti su un disco di ferro. Prima erano 4 i fiscoli tra due dischi di ferro, oggi ne sono 6. L’operazione veniva ripetuta fino ad arrivare al colmo dell’asse centrale di acciaio. Una volta terminato, il carrello con la colonna di fiscoli veniva portata e posizionata sotto la pressa. L’addetto alla premitura azionava la macchina e lentamente vedevo gocciolare il liquido marrone, che si raccoglieva in una vasca retrostante, con flusso minimo ma costante. Finalmente notavo i riflessi delle goccioline di olio che catturavano il mio sguardo stupefatto. Ero fermo, quasi immobile, affascinato nel vedere questo stillicidio incessante di “benessere” che con tanta generosità si accumulava nella parte inferiore.

Il liquido generoso, finalmente veniva prelevato dalla pompa e trasferito nella centrifuga e così avveniva il grande “miracolo” della natura che ricompensava il proprietario e produceva tantissima gioia degli astanti. L’addetto alla centrifuga si affrettava a riempire il recipiente di questo generoso liquido di colore giallo-verde. Lo si assaporava col dito, l’indice per l’esattezza. Ma il ricordo più memorabile mi porta al momento in cui su quelle fette di pane casareccio, tirate fuori dalla borsa di cuoio e dopo averle poste sulla brace ad arrostire, si versava l’OLIO. Il profumo del pane caldo e dell’olio invitava i presenti a gustare mangiando il PANE condito con l’OLIO VERGINE. Il rito si era consumato. La tradizione era stata rispettata. L’annata era BUONA. Ricordo molto bene la gioia delle persone che sostavano, insieme a mio padre, anche loro proprietari di oliveti e molti di essi amici di mio padre, e che chiedevano a me e a mio padre se l’OLIO fosse buono, piccante e gustoso.

La mattina incominciava ad albeggiare e con grande gioia e soddisfazione, pur assonnato per non aver chiuso occhio, si faceva ritorno a casa, dopo aver salutato tutti: il titolare, gli operai e i presenti.

Cerignola, 8 Dicembre 2019                  Matteo Stuppiello


Cerignola – Agro Contrada “Padula” – Frantoio del Sig. PIETRO DELL’ORCO – Foto Matteo Stuppiello 8.12.1979

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